Nessun ritorno da Troia
durò più a lungo
di quello di Telemaco
Roberto Calasso, “Il cacciatore celeste”
L’inizio stabilisce un principio. Un nucleo fisso attorno al quale ruoterà tutto il resto: “Vorrei spendere una parola in favore della Natura, dell’assoluta libertà e dello stato selvaggio, contrapposti a una libertà e una cultura puramente civili; vorrei considerare l’uomo come abitatore della Natura, come sua parte integrante e non come membro della società.” Temi precisi e inequivocabilmente moderni, pur se non esenti da suggestioni illuministiche, nell’era del riscaldamento globale, della liquefazione dei ghiacci polari, dell’inquinamento planetario, delle specie in via di estinzione. E della Natura, sempre maiuscola, sofferente a causa della scriteriata e forse inarrestabile civiltà del progresso ad ogni costo e della crescita infelice. Tutto questo, Henry David Thoreau (Concord, 1817 - 1862), americano innamorato dell’Ovest l’aveva avvertito con un secolo di anticipo. E ne aveva fatto un motivo di opposizione netta nei confronti della “civiltà”.
Contestazione praticata con le armi della critica, della poesia, della filosofia, della parola, detta e scritta, per lanciare un allora quasi del tutto inascoltato grido d’allarme dalle risonanze romantiche, spesso percorse da un evidente integralismo ecologista. Un ambientalista ante litteram, insomma, il cui manifesto, “Walking”, venne condensato nel 1851 in una conferenza al Concord Lyceum per diventare col tempo uno dei testi più letti e discussi dei decenni successivi nell’America della Nuova frontiera.
Ma Thoreau non delinea confini, non erige muri invalicabili né propone catarsi rivoluzionarie. Il suo “trascendentalismo filosofico” mutuato dallo spirito hegeliano e sostenuto da compagni di viaggio come Hawthorne, Irving, Whitman, Emerson, si esprime in conferenze, saggi, poesie che hanno come presupposto la consapevolezza che l’umanità dipende totalmente dalla Natura e da un rigoroso equilibrio nel rapporto uomo - mondo. Un mondo che già nel XIX secolo si stava avviando in una direzione forse senza sbocco.
Un vero e proprio vaticinio produce Thoreau: “…quasi ogni cosiddetto miglioramento a cui l’uomo possa por mano, come la costruzione di case e l’abbattimento di foreste e di alberi secolari, perverte in modo irrimediabile il paesaggio (…) Ah, se la gente cominciasse a bruciare le staccionate e lasciasse vivere le foreste!”. Cent’anni più tardi Karl Jaspers scriverà: “Dopo l’azione esercitata con la tecnica sulla natura, l’uomo si trova a dover subire la reazione del procedimento tecnico…” (K. Jaspers, «Origine e senso della storia», Comunità, Milano 1965).
Chiarissimo.
Nelle pagine intense di “Walking” Thoreau indica un percorso ma non un approdo. L’importante è mettersi in cammino, vagare, attraversare il bosco, respirare la foresta. Le prime pagine erogano un elogio dell’arte del Camminare “ossia di fare passeggiate”. Propone, l’autore, un omaggio al vagabondo, il cui procedere assume i connotati di un viaggio nel e per il mondo, declinato qui in netta contrapposizione alla civiltà, dove “sentirsi a casa propria ovunque, pur non avendo casa in nessun luogo”. Nessun luogo fisico. Nessuna topologia è possibile. Non esiste un punto d’arrivo per il vagabondo, né per la sua etica. Il viandante - Thoreau “…a differenza del viaggiatore che percorre la via per raggiungere una meta, aderisce di volta in volta ai paesaggi che incontra”. Per lui non sono che “…luoghi di transito in attesa di quel luogo, Itaca, che fa di ogni terra una semplice tappa sulla via del ritorno”. (U. Galimberti, «Psiche e techne». Feltrinelli, 2019).
Non le potenti arti magiche di Circe, né i lacci muliebri di Calipso sono in grado di trattenere l’eroe. Ulisse, traduce Pindemonte, siede “mesto sul deserto lido”. Certo, prova nostalgia di casa ma soprattutto “dell’infecondo mare”. Presto riprenderà a “fendere co’ remi il seno a Teti”, a solcare l’ignoto, a vagabondare tra i flutti, immerso nell’elemento naturale più vasto; non cerca un porto sicuro. Meta dell’odissea, in realtà, non è il talamo nuziale scavato nel grande ulivo a Itaca, né l’attracco a isole felici. Tiresia, veggente senza vista, vede e prevede il destino di Odisseo, quando a Itaca giustizia sarà stata fatta e i Proci sterminati: “allora parti, prendendo il maneggevole remo / finché a genti tu arrivi che non conoscono il mare… (…) /morte dal mare ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto / da una serena vecchiezza. (…) Questo con verità ti predico”.
Lo scopo è dunque, per Ulisse e per noi tutti, il viaggio in sé come anelito indistruttibile e insaziabile alla conoscenza che del viaggio è effetto collaterale, cifra della vita intesa come percorso fra due estremi che non sapremo mai. Nessuna erma ci indica la destinazione finale. È questo il senso, della radice mitica del nomadismo essenziale che dovrebbe muoverci: l’andare gratuito. Thoreau, vagabondo dei boschi, è Ulisse e si immerge nell’archetipo di ogni vagabondare perché tutti noi “…dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito di avventura, come se non dovessimo mai far ritorno …”. Itaca è solo una sosta propedeutica a un’ulteriore erranza. Chi ritorna subisce una sconfitta poiché, a meno che non riparta, rinuncia a procedere, si ferma.
Proprio come accade all’altro Ulisse, nostro moderno e più realistico ritratto. Mr. Bloom, racconta Joyce, torna a casa. Questa è la sua meta e, insieme, la sua sconfitta: l’autore uccide il mito per partorirne un altro tramite un’inversione radicale della significatività dello spazio e del tempo che, afferma Hans Blumenberg, “…deve essere strappata all’indifferenza riducendo la cornice spazio - temporale -in ironico contrasto col dispendio omerico di mondo e tempo- alla gratuità di un giorno …” (H. Blumenberg, «Elaborazione del mito». Il Mulino, 1979).
Anche i vagabondaggi di Thoreau non durano mai più di un giorno e l’orizzonte, pur se irraggiungibile, può sempre essere desiderato e descritto: presupposti di un ritorno che è anch’esso un vagabondare verso una regressione salvifica allo stato di natura, a come eravamo. L’ambientalista di Concord guarda, a quella “vita prior” dalla quale siamo caduti nel mondo. Ma non c’è un Eden ad attenderci al termine del viaggio: “Camminando, ci dirigiamo naturalmente verso i campi ed i boschi: cosa sarebbe di noi se ci fosse dato camminare unicamente in un giardino…?”. Quel giardino, oggi lo sappiamo, è perduto per sempre. In questo consiste forse la punizione divina: aver desiderato, un tempo, raggiungere una meta che ci era stata interdetta: Così, raggiungendo l’obiettivo fatale, siamo diventati Uomo, l’”animale non ancora stabilizzato” di cui parla Nietzsche, alla perenne ricerca di ciò che sempre gli sfugge. Il passo lento del viandante non deve fermarsi. Anche se il bosco, la foresta, lo attendono, non sono lì per lui. Infatti “…il paesaggio, non appartiene a nessuno…”.
Ma c’è un’altra, forse più famosa e meno amichevole foresta, descritta 50 anni più tardi da Conrad. È, quella che scorre davanti agli occhi di Marlow mentre naviga sul fiume Congo. Un luogo oscuro dal quale provengono cupe risonanze: il luogo del nulla, dell’indecifrabile, dell’assenza di senso, suscitatore di orrore dell’ignoto che riempie il cuore di tenebra. In questa foresta, che non è, come per l’uomo di Concord, bosco verdeggiante ma oscuro abisso, sta in attesa l’indicibile e angosciante presenza del nulla.
La prosa di Thoreau è, al contrario, luminosa disseminazione di significato, sostenuta da un fraseggio crepitante, che procede a scatti, per brevi segmenti. Digitale, diremmo oggi, con un flusso narrativo che guarda meno alla struttura del periodo che all’epigrafe, pur non disdegnando il verso: “Cos’è mai, cos’è mai? / solo una direzione, laggiù / la semplice possibilità /di andare in un luogo qualsiasi /…”. Ma procedere senza meta non significa imboccare sempre la corretta via poiché l’assenza di traguardo non presuppone l’assenza di una direzione: “Non è indifferente scegliere l’una o l’altra strada. Solo una è quella giusta.” È la natura la bussola del vagabondo: E c’è uno strumento infallibile chiamato istinto che, rivela autobiograficamente Thoreau, punta sempre …”il sud ovest, verso un bosco, un prato, un pascolo abbandonato…”. L’Ovest, appunto, la “frontiera”, la nuova terra, promessa e vergine. Nessuna strada giusta muove verso l’Est. Là c’è la vecchia Europa che i padri Pellegrini si lasciarono alle spalle per fondare un Nuovo mondo e una nuova morale. Per queste ragioni “Verso est vado solo se costretto, ma verso ovest mi dirigo liberamente.”
C’è un altro grande scrittore nelle cui opere il Male proviene sempre dall’Est e la salvezza si può raggiungere solo dirigendosi all’Ovest. J. R. R. Tolkien, cent’anni dopo Thoreau, svilupperà la stessa geografia longitudinale nel ciclo dell’Anello, utilizzando le medesime coordinate.
In “Walking” nessuna vita, nessuna speranza muove verso est anche se tutti noi proveniamo da un Oriente biblico, dunque mitico, al quale desideriamo ritornare. E insieme a Thoreau, “…ci dirigiamo naturalmente verso i campi e i boschi…” ondivagando verso il tramonto, in direzione di “un Ovest remoto e puro come quello in cui il sole si inabissa.”